venerdì 10 febbraio 2012

GLI EFFETTI COLLATERALI DELL'ARTICOLO 18

C'è chi sta aspettando da sette anni risarcimento e stipendi arretrati, chi ha deciso di tornare dopo l'ok del giudice e ogni giorno sopporta piccole e grandi vessazioni, chi alla fine non ce l'ha fatta e ha dovuto rinunciare a quel posto di lavoro dopo averlo difeso con le unghie e con i denti anche in tribunale. Benvenuti nel limbo dell'articolo 18, storie di lavoratori e lavoratrici alle prese con le conseguenze di un licenziamento ritenuto 'illegittimo' e che da quel momento hanno iniziato un vero e proprio calvario tra udienze, attese di risarcimento e mobbing post sentenze. Perché se governo Monti e imprenditori vorrebbero riscriverlo, questo benedetto articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per ridare competitività al sistema Italia, chi ogni giorno è alle prese con i suoi effetti lo definisce - pur tra tanti difetti e imperfezioni - come l'architrave di tutti i diritti, la norma senza la quale il mercato del lavoro diventerebbe una giungla senza alcun ostacolo al licenziamento illegittimo da parte delle aziende.

Ogni anno sono migliaia i licenziamenti impugnati in base all'articolo 18 in tribunale. Il giudice, a seconda dei casi, può disporre il reintegro o meno all'interno dell'azienda della persona licenziata e stabilire un risarcimento. Spesso però, dopo un accordo tra le parti, azienda e lavoratore preferiscono optare per una terza via e cioè quella che in gergo tecnico si chiama 'monetizzazione del reintegro': si accetta una certa cifra senza mai far ritorno al lavoro. Una soluzione che garantisce al lavoratore una base economica per poter cercare con relativa calma una nuova occupazione e che evita all'azienda di ricollocare al proprio interno un persona evidentemente sgradita. Prassi molto diffusa che però in questi ultimi tempi di crisi sta segnando una brusca battuta d'arresto. “Fino a qualche tempo fa chi subiva un licenziamento illegittimo optava per la monetizzazione – racconta Daniela Zini dell'ufficio giuridico della Camera del Lavoro di Bologna – D'altronde scegliere di tornare a lavorare per un'azienda che ti ha voluto a tutti i costi licenziare non è proprio facile. Eppure da un po' di tempo le cose stanno cambiando visto che il mercato del lavoro non offre più molte garanzie di ricollocazione immediata. Per questo molti accettano di essere reintegrati pur di poter continuare a lavorare e avere la certezza di uno stipendio ogni mese”.

Alla sentenza di primo grado, in media, si arriva dopo quasi due anni di attesa. Solo a quel punto il lavoratore ha certezza se il suo licenziamento è avvenuto in modo illegittimo o meno. Ed è qui che interviene l'articolo 18 che, come spiega l'avvocato Bruno Laudi dello Studio legale associato 'Piccinini e soci' di Bologna, “contrariamente a quanto si pensa non influisce o meno sulla libertà di licenziare ma regolamenta le sanzioni al licenziamento illegittimo. D'altronde oggi – continua l'avvocato che per la Camera del Lavoro di Bologna segue i casi più spinosi – opporsi a un licenziamento è diventato una corsa ad ostacoli a cominciare proprio dai tempi di impugnazione che si sono ridotti da 5 anni a soli 270 giorni”. Ma se le sentenze di primo grado arrivano (salvo per i casi più 'gravi' che viaggiano su tabelle di marcia più veloci) dopo 24 mesi, per la Cassazione i tempi di attesa si moltiplicano, fino a toccare anche quota 5-6 anni dalla data del licenziamento. Con effetti spesso disastrosi per quei lavoratori che attendono di conoscere il proprio futuro.

E' il caso di un dipendente di un'azienda grafica modenese licenziato nel 2004 al termine di un lungo braccio di ferro con i datori di lavoro che non vedevano di buon occhio il suo iper-attivismo sindacale. “Nella lettera di licenziamento scrissero che non avevo provveduto alla manutenzione di una macchina che serviva per la preparazione di alcuni solventi – racconta l'uomo assunto sei anni prima – ma gli scontri con i miei superiori erano diventati ormai quotidiani e sistematici. A quel punto decisi di impugnare il licenziamento che tra l'altro arrivò nel bel mezzo di una convalescenza per un intervento chirurgico alla spalla che avevo sostenuto qualche giorno prima”. La causa in tribunale andò avanti spedita prima di interrompesi bruscamente due anni dopo quando l'azienda fallì, facendo slittare così il pronunciamento del giudice che arrivò solo nel febbraio dello scorso anno: otto anni dopo da quella maledetta lettera. “Il giudice sostenne che il licenziamento era illegittimo perché gli eventuali errori di manutenzione commessi non potevano essere così gravi da giustificare un licenziamento in tronco – aggiunge l'uomo – Il tribunale stabilì quindi il reintegro che però di fatto non è mai avvenuto visto che l'azienda era fallita. Sono rimasto molti mesi senza lavoro per poi aprire un bar-ristorante a Modena. Adesso, insieme al mio avvocato, abbiamo chiesto un risarcimento per le mancate retribuzioni almeno fino al 2006”.

Ma se per il grafico modenese il non ritorno in azienda fu una scelta obbligata, per tutti gli altri lavoratori l'articolo 18 stabilisce il reintegro come punto cardine, lasciando poi ai singoli casi la libertà di decidere se tornare o meno ad occupare il proprio posto di lavoro, con tutte le conseguenze che ne derivano. Gli esempi qui si sprecano: su tutti prevale quello di un operaio meccanico bolognese che dopo il reintegro stabilito dal giudice decise di ritornare a lavorare – con le stesse mansioni e il medesimo stipendio - nell'azienda che l'aveva licenziato. L'esperienza però durò davvero poco perché dal momento in cui lui rimise piede in ditta iniziarono da parte dei suoi capi piccole e grandi vessazioni, modifiche di turno all'ultimo momento, lettere di contestazioni e continui richiami. Tanto che dopo dopo sette mesi optò per le dimissioni accettando poche mensilità pur di ritrovare la serenità perduta. Chi, invece, ancora oggi non intende mollare è un dipendente di un'azienda di pulizie, nato in un Paese del Maghreb ma residente a Modena da 34 anni, licenziato nel 2005 perché accusato di non 'curare' sufficientemente spugne, secchi e stracci. “A dicembre del 2006 il giudice disse che potevo riprendermi il mio posto di lavoro – racconta oggi in una delle poche pause del suo turno giornaliero - e a maggio del 2007 mi ripresentai in azienda. Certo, potevo scegliere di prendere dei soldi e rassegnare le dimissioni ma a 50 anni non avrei trovato facilmente un altro posto. Io un lavoro ce l'avevo e me lo sono tenuto stretto. Se mi sono pentito? I miei superiori ogni giorno mi affidano i lavori più difficili. Per loro resterò sempre la pecora nera dell'azienda ma niente può essere più duro da accettare di essere licenziati senza un reale motivo”.

Pubblicato su Lettera43.it