venerdì 6 luglio 2012

DIAZ, LA VIOLENZA NON SI LAVA

“In questi undici anni nessuno delle vittime del pestaggio della Diaz ha avuto l'impressione di avere le istituzioni dalla propria parte. Adesso i giudici della Cassazione hanno avuto la possibilità di ribaltare questa sensazione ma la violenza che subimmo in quei corridoi e in quelle aule non potrà mai più essere cancellata”. Lorenzo Guadagnucci, 49 anni, giornalista del Quotidiano Nazionale, la sera del 21 luglio del 2001 si trovava all'interno della scuola Diaz di Genova e da quel momento la sua vita è cambiata. E' stato tra i fondatori del comitato “Verità e Giustizia per Genova” e su quella lunga notte ha scritto libri e saggi. Oggi, undici anni dopo, c'era anche lui in Cassazione per ascoltare un la sentenza che ha confermato le condanne ai vertici della polizia.
Guadagnucci qual è il suo primo ricordo di quella sera di luglio?
“Sicuramente il senso di abbandono e smarrimento provocato dalla violenza subìta. Io, come tutti i ragazzi picchiati, ci trovavamo in una condizione paradossale: non potevamo chiedere aiuto a nessuno, non potevamo contare su niente perché chi doveva farlo, chi avrebbe dovuto darci una mano ci aveva ridotto in quelle condizioni. Ecco, quella fu una cosa davvero assurda da dover capire”.
Perché quella sera si trovava all'interno della Diaz?
“Era il mio giorno libero dal giornale e decisi di andare a Genova per seguire il G8. In quel periodo avevo già cominciato ad interessarmi al mondo dell'economia solidale. Scelsi di piazzare il mio sacco a pelo alla Diaz perché era a due passi dal centro stampa del Social Forum. Era un posto comodo e sicuro. Non potevo di certo immaginare cosa sarebbe successo dopo”.
Al momento dell'irruzione delle forze dell'ordine non ebbe modo di dire che era un giornalista, che non era un black bloc?
“L'irruzione della polizia non è stata esattamente come si racconta nei film. Non fu una perquisizione. I poliziotti entrarono e cominciarono a picchiare. Nessuno ha avuto il tempo o il modo di dire niente”.
Come ne uscì?
“In barella e due ore dopo. Il medico che mi visitò all'interno della scuola riscontrò la frattura delle braccia e varie ferite alla schiena. In ospedale, invece, la diagnosi si assestò alla sola frattura dello scafoide ma avevo anche delle profonde bruciature sulle spalle. Quasi certamente provocate da un manganello elettrico usato dai tre agenti in tenuta antisommossa che mi picchiarono. Ma quello che mi fece più male, uscendo dalla scuola, è stato vedere alcuni dirigenti della polizia all'interno del cortile confabulare tra di loro in tutta tranquillità mentre tutto intorno c'era caos, sangue, dolore. Quegli stessi dirigenti che oggi sono imputati in un processo che sta finalmente per concludersi”.
Cosa si aspettava dalla sentenza della Cassazione?
“Direi che era l'ultima occasione da parte delle istituzioni per dare un segnale ai cittadini di certezza del diritto e rispetto delle regole. In questi undici anni, noi vittime della Diaz non abbiamo mai sentito la vicinanza dello Stato. Anzi, spesso, a causa dei depistaggi, degli inganni, delle false verità, ci è sembrato che volessero ostacolarci, impedire che venisse fatta giustizia, che si facesse luce su quanto veramente accaduto”.
Lei è tra i fondatori del comitato “Verità e Giustizia per Genova” e sul quel maledetto G8 ha scritto anche un libro. Pensa di essersi messo alle spalle la violenza di quella sera d'estate?
“Penso che la violenza vista e subìta alla Diaz sia una di quelle cose che ti cambiano la vita per sempre. Niente, da quel momento, può essere uguale a prima. Cambia il modo di vedere il mondo, di percepirlo. Io, con il lavoro che faccio, ho avuto subito la possibilità di raccontare e scrivere quello che mi era successo. Ecco perché mi sento più fortunato di altri che erano con me quella sera. Per loro, metabolizzare Genova, la violenza, le manganellate, è ed è stato quasi impossibile”.

di Massimiliano Papasso
Pubblicato su Lettera43.it

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