venerdì 6 luglio 2012
DIAZ, LA VIOLENZA NON SI LAVA
martedì 6 marzo 2012
FUNERAL PARTY
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"Mamma guarda c'è Eros!" ho sentito dire a un bambino di nemmeno dieci anni che cercava di infilare la testa tra una reflex e una telecamera sorretto, spinto e sponsorizzato da mamma, sorella, zia e parente non meglio identificato. "Mi fa passare? Devo fare una foto alla bara" mi ha detto un signorotto d'altri tempi spalleggiato dalla moglie (altrimenti comunemente detta 'amica e collaboratrice').
Per non parlare di quelli che in chiesa non ci sono nemmeno entrati e che della cerimonia, delle rondini di Alemenanno, dei suoi occhiali scuri e del suo pudore non hanno voluto sentire nemmeno una spiffero. Sono rimasti lì, asserragliati davanti all'ingresso di Piazza Galvani a fare la conta di chi passava, di chi non si è visto, dei capelli di quel tale, del cappello di quell'altro.
E allora, prima di interrogarsi sulla rilevanza pubblica della vita sessuale di una persona, di sputare sentenze sul cinismo dell'informazione, sull'istinto primordiale che spinge a guardare dal buco della serratura altrui, bisognerebbe domandarsi che senso ha portarsi a casa una foto di una bara in legno massiccio o annotare sul taccuino dei ricordi la lacrima di qualcuno che si professa famoso.
venerdì 10 febbraio 2012
GLI EFFETTI COLLATERALI DELL'ARTICOLO 18
Ogni anno sono migliaia i licenziamenti impugnati in base all'articolo 18 in tribunale. Il giudice, a seconda dei casi, può disporre il reintegro o meno all'interno dell'azienda della persona licenziata e stabilire un risarcimento. Spesso però, dopo un accordo tra le parti, azienda e lavoratore preferiscono optare per una terza via e cioè quella che in gergo tecnico si chiama 'monetizzazione del reintegro': si accetta una certa cifra senza mai far ritorno al lavoro. Una soluzione che garantisce al lavoratore una base economica per poter cercare con relativa calma una nuova occupazione e che evita all'azienda di ricollocare al proprio interno un persona evidentemente sgradita. Prassi molto diffusa che però in questi ultimi tempi di crisi sta segnando una brusca battuta d'arresto. “Fino a qualche tempo fa chi subiva un licenziamento illegittimo optava per la monetizzazione – racconta Daniela Zini dell'ufficio giuridico della Camera del Lavoro di Bologna – D'altronde scegliere di tornare a lavorare per un'azienda che ti ha voluto a tutti i costi licenziare non è proprio facile. Eppure da un po' di tempo le cose stanno cambiando visto che il mercato del lavoro non offre più molte garanzie di ricollocazione immediata. Per questo molti accettano di essere reintegrati pur di poter continuare a lavorare e avere la certezza di uno stipendio ogni mese”.
Alla sentenza di primo grado, in media, si arriva dopo quasi due anni di attesa. Solo a quel punto il lavoratore ha certezza se il suo licenziamento è avvenuto in modo illegittimo o meno. Ed è qui che interviene l'articolo 18 che, come spiega l'avvocato Bruno Laudi dello Studio legale associato 'Piccinini e soci' di Bologna, “contrariamente a quanto si pensa non influisce o meno sulla libertà di licenziare ma regolamenta le sanzioni al licenziamento illegittimo. D'altronde oggi – continua l'avvocato che per la Camera del Lavoro di Bologna segue i casi più spinosi – opporsi a un licenziamento è diventato una corsa ad ostacoli a cominciare proprio dai tempi di impugnazione che si sono ridotti da 5 anni a soli 270 giorni”. Ma se le sentenze di primo grado arrivano (salvo per i casi più 'gravi' che viaggiano su tabelle di marcia più veloci) dopo 24 mesi, per la Cassazione i tempi di attesa si moltiplicano, fino a toccare anche quota 5-6 anni dalla data del licenziamento. Con effetti spesso disastrosi per quei lavoratori che attendono di conoscere il proprio futuro.
E' il caso di un dipendente di un'azienda grafica modenese licenziato nel 2004 al termine di un lungo braccio di ferro con i datori di lavoro che non vedevano di buon occhio il suo iper-attivismo sindacale. “Nella lettera di licenziamento scrissero che non avevo provveduto alla manutenzione di una macchina che serviva per la preparazione di alcuni solventi – racconta l'uomo assunto sei anni prima – ma gli scontri con i miei superiori erano diventati ormai quotidiani e sistematici. A quel punto decisi di impugnare il licenziamento che tra l'altro arrivò nel bel mezzo di una convalescenza per un intervento chirurgico alla spalla che avevo sostenuto qualche giorno prima”. La causa in tribunale andò avanti spedita prima di interrompesi bruscamente due anni dopo quando l'azienda fallì, facendo slittare così il pronunciamento del giudice che arrivò solo nel febbraio dello scorso anno: otto anni dopo da quella maledetta lettera. “Il giudice sostenne che il licenziamento era illegittimo perché gli eventuali errori di manutenzione commessi non potevano essere così gravi da giustificare un licenziamento in tronco – aggiunge l'uomo – Il tribunale stabilì quindi il reintegro che però di fatto non è mai avvenuto visto che l'azienda era fallita. Sono rimasto molti mesi senza lavoro per poi aprire un bar-ristorante a Modena. Adesso, insieme al mio avvocato, abbiamo chiesto un risarcimento per le mancate retribuzioni almeno fino al 2006”.
Ma se per il grafico modenese il non ritorno in azienda fu una scelta obbligata, per tutti gli altri lavoratori l'articolo 18 stabilisce il reintegro come punto cardine, lasciando poi ai singoli casi la libertà di decidere se tornare o meno ad occupare il proprio posto di lavoro, con tutte le conseguenze che ne derivano. Gli esempi qui si sprecano: su tutti prevale quello di un operaio meccanico bolognese che dopo il reintegro stabilito dal giudice decise di ritornare a lavorare – con le stesse mansioni e il medesimo stipendio - nell'azienda che l'aveva licenziato. L'esperienza però durò davvero poco perché dal momento in cui lui rimise piede in ditta iniziarono da parte dei suoi capi piccole e grandi vessazioni, modifiche di turno all'ultimo momento, lettere di contestazioni e continui richiami. Tanto che dopo dopo sette mesi optò per le dimissioni accettando poche mensilità pur di ritrovare la serenità perduta. Chi, invece, ancora oggi non intende mollare è un dipendente di un'azienda di pulizie, nato in un Paese del Maghreb ma residente a Modena da 34 anni, licenziato nel 2005 perché accusato di non 'curare' sufficientemente spugne, secchi e stracci. “A dicembre del 2006 il giudice disse che potevo riprendermi il mio posto di lavoro – racconta oggi in una delle poche pause del suo turno giornaliero - e a maggio del 2007 mi ripresentai in azienda. Certo, potevo scegliere di prendere dei soldi e rassegnare le dimissioni ma a 50 anni non avrei trovato facilmente un altro posto. Io un lavoro ce l'avevo e me lo sono tenuto stretto. Se mi sono pentito? I miei superiori ogni giorno mi affidano i lavori più difficili. Per loro resterò sempre la pecora nera dell'azienda ma niente può essere più duro da accettare di essere licenziati senza un reale motivo”.
Pubblicato su Lettera43.it
venerdì 20 gennaio 2012
domenica 1 gennaio 2012
A CASTEL MAGGIORE LE STRADE VANNO ALL'ASTA
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Tutto cominciò quando un'impresa edile toscana realizzò a Castel Maggiore alcune opere di interesse pubblico commissionate dall'amministrazione comunale nell'ambito di precedenti accordi urbanistici. Una prassi per molti comuni che però nel piccolo centro bolognese diventò presto una patata bollente: prima che venisse perfezionato il passaggio di proprietà al Comune delle strade, aiuole e marciapiedi realizzate, l'impresa – nel 1998 – fallì. E quindi tecnicamente, anche se in questi anni il Comune le ha utilizzate, di fatto quelle opere hanno sempre continuato a far parte del patrimonio dell'impresa privata che adesso, dopo anni di tira e molla con i creditori, il curatore fallimentare ha deciso di mettere all'asta.
E così tra i beni della ditta il prossimo 31 gennaio a Firenze il giudice fallimentare si troverà a battere all'asta anche un pezzo di via Pablo Neruda (che, ironia della sorte, porta alla sede del nuovo municipio di Castel Maggiore), un terreno agricolo sul quale è stata costruita una centralina dell'energia elettrica, un'aiuola spartitraffico e diversi marciapiedi. Il prezzo base per diventarne proprietari è di 70.000 euro: da questa cifra potrà partire la gara dei rilanci tra gli eventuali pretendenti con aumenti minimi di 2mila euro.
“Se l'amministrazione avesse fatto prima un accordo con l’azienda per prendersi in carico le aree, questo problema non esisterebbe” ha tuonato il consigliere regionale del Pdl Galeazzo Bignami che assieme al consigliere comunale Leo Cataldo ha sollevato il caso. A questo punto il rischio è che il prossimo 31 gennaio all'asta fallimentare si presentino, oltre presumibilmente all'amministrazione comunale, anche privati cittadini disposti a sborsare fior di quattrini pur di accaparrarsi un pezzo di strada o un'aiuola. “In questo caso – ha aggiunto Bignami - ci sarebbe il forte rischio di una speculazione — perché in cambio dei terreni i nuovi proprietari cosa chiederebbero al Comune?».
Ipotesi, quest'ultima, rimandata al mittente dal sindaco targato Pd Marco Monesi, convinto che tutto si risolverà per il meglio e che la giunta non dovrà sborsare nemmeno un euro. “Poiché le opere sono state completate dal Comune e poste al servizio della collettività – ha spiegato l'amministrazione ieri in un comunicato ufficiale - fanno parte a tutti gli effetti del demanio comunale. Non si capisce quindi perché il Comune dovrebbe pagare un tratto di strada e una rotonda di uso pubblico che già gli appartengono. Ci affideremo quindi ad azioni legali per tutelare l’interesse pubblico e evitare esborsi di risorse finanziarie della collettività”.
Ma se l'asta dovesse andare male, anche l'alternativa dell'esproprio sembra essere piuttosto salata: secondo una recente perizia il valore dei terreni in ballo supera gli 800mila euro. Una cifra che in questi tempi di crisi il Comune bolognese non può concedersi il lusso di spendere nemmeno per 'riprendersi' un pezzo di strada che porta al municipio.
Pubblicato su Lettera43