sabato 20 aprile 2013

venerdì 6 luglio 2012

DIAZ, LA VIOLENZA NON SI LAVA

“In questi undici anni nessuno delle vittime del pestaggio della Diaz ha avuto l'impressione di avere le istituzioni dalla propria parte. Adesso i giudici della Cassazione hanno avuto la possibilità di ribaltare questa sensazione ma la violenza che subimmo in quei corridoi e in quelle aule non potrà mai più essere cancellata”. Lorenzo Guadagnucci, 49 anni, giornalista del Quotidiano Nazionale, la sera del 21 luglio del 2001 si trovava all'interno della scuola Diaz di Genova e da quel momento la sua vita è cambiata. E' stato tra i fondatori del comitato “Verità e Giustizia per Genova” e su quella lunga notte ha scritto libri e saggi. Oggi, undici anni dopo, c'era anche lui in Cassazione per ascoltare un la sentenza che ha confermato le condanne ai vertici della polizia.
Guadagnucci qual è il suo primo ricordo di quella sera di luglio?
“Sicuramente il senso di abbandono e smarrimento provocato dalla violenza subìta. Io, come tutti i ragazzi picchiati, ci trovavamo in una condizione paradossale: non potevamo chiedere aiuto a nessuno, non potevamo contare su niente perché chi doveva farlo, chi avrebbe dovuto darci una mano ci aveva ridotto in quelle condizioni. Ecco, quella fu una cosa davvero assurda da dover capire”.
Perché quella sera si trovava all'interno della Diaz?
“Era il mio giorno libero dal giornale e decisi di andare a Genova per seguire il G8. In quel periodo avevo già cominciato ad interessarmi al mondo dell'economia solidale. Scelsi di piazzare il mio sacco a pelo alla Diaz perché era a due passi dal centro stampa del Social Forum. Era un posto comodo e sicuro. Non potevo di certo immaginare cosa sarebbe successo dopo”.
Al momento dell'irruzione delle forze dell'ordine non ebbe modo di dire che era un giornalista, che non era un black bloc?
“L'irruzione della polizia non è stata esattamente come si racconta nei film. Non fu una perquisizione. I poliziotti entrarono e cominciarono a picchiare. Nessuno ha avuto il tempo o il modo di dire niente”.
Come ne uscì?
“In barella e due ore dopo. Il medico che mi visitò all'interno della scuola riscontrò la frattura delle braccia e varie ferite alla schiena. In ospedale, invece, la diagnosi si assestò alla sola frattura dello scafoide ma avevo anche delle profonde bruciature sulle spalle. Quasi certamente provocate da un manganello elettrico usato dai tre agenti in tenuta antisommossa che mi picchiarono. Ma quello che mi fece più male, uscendo dalla scuola, è stato vedere alcuni dirigenti della polizia all'interno del cortile confabulare tra di loro in tutta tranquillità mentre tutto intorno c'era caos, sangue, dolore. Quegli stessi dirigenti che oggi sono imputati in un processo che sta finalmente per concludersi”.
Cosa si aspettava dalla sentenza della Cassazione?
“Direi che era l'ultima occasione da parte delle istituzioni per dare un segnale ai cittadini di certezza del diritto e rispetto delle regole. In questi undici anni, noi vittime della Diaz non abbiamo mai sentito la vicinanza dello Stato. Anzi, spesso, a causa dei depistaggi, degli inganni, delle false verità, ci è sembrato che volessero ostacolarci, impedire che venisse fatta giustizia, che si facesse luce su quanto veramente accaduto”.
Lei è tra i fondatori del comitato “Verità e Giustizia per Genova” e sul quel maledetto G8 ha scritto anche un libro. Pensa di essersi messo alle spalle la violenza di quella sera d'estate?
“Penso che la violenza vista e subìta alla Diaz sia una di quelle cose che ti cambiano la vita per sempre. Niente, da quel momento, può essere uguale a prima. Cambia il modo di vedere il mondo, di percepirlo. Io, con il lavoro che faccio, ho avuto subito la possibilità di raccontare e scrivere quello che mi era successo. Ecco perché mi sento più fortunato di altri che erano con me quella sera. Per loro, metabolizzare Genova, la violenza, le manganellate, è ed è stato quasi impossibile”.

di Massimiliano Papasso
Pubblicato su Lettera43.it

martedì 6 marzo 2012

FUNERAL PARTY

C'è stato qualcosa di più morboso della 'caccia al vedovo' durante il funerale di Lucio Dalla. Qualcosa di più fastidioso dell'outing a mezzo servizio di chi non c'è piu o di quel 'vedo/non vedo" di chi stava a pontificare sull'altare di San Petronio. E' stato tutto quel che succedeva ai lati della basilica, tra le navate e davanti agli ingressi secondari. Uomini, donne, credenti, miss credenti, anziani e bambini, tutti armati di macchina fotografica e un pizzico di voyeurismo religioso per accaparrarsi uno scatto della bara più osservata d'Italia o immortalare le lacrime e il viso tirato del vip di turno. Centinia di persone che facevano a spallate tra loro e con chi quella cerimonia doveva raccontarla (giornalisti, fotografi e cameraman) per guadagnarsi un posto in prima fila e cominciare il giocherellone dell'indovina chi piange.
"Mamma guarda c'è Eros!" ho sentito dire a un bambino di nemmeno dieci anni che cercava di infilare la testa tra una reflex e una telecamera sorretto, spinto e sponsorizzato da mamma, sorella, zia e parente non meglio identificato. "Mi fa passare? Devo fare una foto alla bara" mi ha detto un signorotto d'altri tempi spalleggiato dalla moglie (altrimenti comunemente detta 'amica e collaboratrice').
Per non parlare di quelli che in chiesa non ci sono nemmeno entrati e che della cerimonia, delle rondini di Alemenanno, dei suoi occhiali scuri e del suo pudore non hanno voluto sentire nemmeno una spiffero. Sono rimasti lì, asserragliati davanti all'ingresso di Piazza Galvani a fare la conta di chi passava, di chi non si è visto, dei capelli di quel tale, del cappello di quell'altro.
E allora, prima di interrogarsi sulla rilevanza pubblica della vita sessuale di una persona, di sputare sentenze sul cinismo dell'informazione, sull'istinto primordiale che spinge a guardare dal buco della serratura altrui, bisognerebbe domandarsi che senso ha portarsi a casa una foto di una bara in legno massiccio o annotare sul taccuino dei ricordi la lacrima di qualcuno che si professa famoso.

venerdì 10 febbraio 2012

GLI EFFETTI COLLATERALI DELL'ARTICOLO 18

C'è chi sta aspettando da sette anni risarcimento e stipendi arretrati, chi ha deciso di tornare dopo l'ok del giudice e ogni giorno sopporta piccole e grandi vessazioni, chi alla fine non ce l'ha fatta e ha dovuto rinunciare a quel posto di lavoro dopo averlo difeso con le unghie e con i denti anche in tribunale. Benvenuti nel limbo dell'articolo 18, storie di lavoratori e lavoratrici alle prese con le conseguenze di un licenziamento ritenuto 'illegittimo' e che da quel momento hanno iniziato un vero e proprio calvario tra udienze, attese di risarcimento e mobbing post sentenze. Perché se governo Monti e imprenditori vorrebbero riscriverlo, questo benedetto articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, per ridare competitività al sistema Italia, chi ogni giorno è alle prese con i suoi effetti lo definisce - pur tra tanti difetti e imperfezioni - come l'architrave di tutti i diritti, la norma senza la quale il mercato del lavoro diventerebbe una giungla senza alcun ostacolo al licenziamento illegittimo da parte delle aziende.

Ogni anno sono migliaia i licenziamenti impugnati in base all'articolo 18 in tribunale. Il giudice, a seconda dei casi, può disporre il reintegro o meno all'interno dell'azienda della persona licenziata e stabilire un risarcimento. Spesso però, dopo un accordo tra le parti, azienda e lavoratore preferiscono optare per una terza via e cioè quella che in gergo tecnico si chiama 'monetizzazione del reintegro': si accetta una certa cifra senza mai far ritorno al lavoro. Una soluzione che garantisce al lavoratore una base economica per poter cercare con relativa calma una nuova occupazione e che evita all'azienda di ricollocare al proprio interno un persona evidentemente sgradita. Prassi molto diffusa che però in questi ultimi tempi di crisi sta segnando una brusca battuta d'arresto. “Fino a qualche tempo fa chi subiva un licenziamento illegittimo optava per la monetizzazione – racconta Daniela Zini dell'ufficio giuridico della Camera del Lavoro di Bologna – D'altronde scegliere di tornare a lavorare per un'azienda che ti ha voluto a tutti i costi licenziare non è proprio facile. Eppure da un po' di tempo le cose stanno cambiando visto che il mercato del lavoro non offre più molte garanzie di ricollocazione immediata. Per questo molti accettano di essere reintegrati pur di poter continuare a lavorare e avere la certezza di uno stipendio ogni mese”.

Alla sentenza di primo grado, in media, si arriva dopo quasi due anni di attesa. Solo a quel punto il lavoratore ha certezza se il suo licenziamento è avvenuto in modo illegittimo o meno. Ed è qui che interviene l'articolo 18 che, come spiega l'avvocato Bruno Laudi dello Studio legale associato 'Piccinini e soci' di Bologna, “contrariamente a quanto si pensa non influisce o meno sulla libertà di licenziare ma regolamenta le sanzioni al licenziamento illegittimo. D'altronde oggi – continua l'avvocato che per la Camera del Lavoro di Bologna segue i casi più spinosi – opporsi a un licenziamento è diventato una corsa ad ostacoli a cominciare proprio dai tempi di impugnazione che si sono ridotti da 5 anni a soli 270 giorni”. Ma se le sentenze di primo grado arrivano (salvo per i casi più 'gravi' che viaggiano su tabelle di marcia più veloci) dopo 24 mesi, per la Cassazione i tempi di attesa si moltiplicano, fino a toccare anche quota 5-6 anni dalla data del licenziamento. Con effetti spesso disastrosi per quei lavoratori che attendono di conoscere il proprio futuro.

E' il caso di un dipendente di un'azienda grafica modenese licenziato nel 2004 al termine di un lungo braccio di ferro con i datori di lavoro che non vedevano di buon occhio il suo iper-attivismo sindacale. “Nella lettera di licenziamento scrissero che non avevo provveduto alla manutenzione di una macchina che serviva per la preparazione di alcuni solventi – racconta l'uomo assunto sei anni prima – ma gli scontri con i miei superiori erano diventati ormai quotidiani e sistematici. A quel punto decisi di impugnare il licenziamento che tra l'altro arrivò nel bel mezzo di una convalescenza per un intervento chirurgico alla spalla che avevo sostenuto qualche giorno prima”. La causa in tribunale andò avanti spedita prima di interrompesi bruscamente due anni dopo quando l'azienda fallì, facendo slittare così il pronunciamento del giudice che arrivò solo nel febbraio dello scorso anno: otto anni dopo da quella maledetta lettera. “Il giudice sostenne che il licenziamento era illegittimo perché gli eventuali errori di manutenzione commessi non potevano essere così gravi da giustificare un licenziamento in tronco – aggiunge l'uomo – Il tribunale stabilì quindi il reintegro che però di fatto non è mai avvenuto visto che l'azienda era fallita. Sono rimasto molti mesi senza lavoro per poi aprire un bar-ristorante a Modena. Adesso, insieme al mio avvocato, abbiamo chiesto un risarcimento per le mancate retribuzioni almeno fino al 2006”.

Ma se per il grafico modenese il non ritorno in azienda fu una scelta obbligata, per tutti gli altri lavoratori l'articolo 18 stabilisce il reintegro come punto cardine, lasciando poi ai singoli casi la libertà di decidere se tornare o meno ad occupare il proprio posto di lavoro, con tutte le conseguenze che ne derivano. Gli esempi qui si sprecano: su tutti prevale quello di un operaio meccanico bolognese che dopo il reintegro stabilito dal giudice decise di ritornare a lavorare – con le stesse mansioni e il medesimo stipendio - nell'azienda che l'aveva licenziato. L'esperienza però durò davvero poco perché dal momento in cui lui rimise piede in ditta iniziarono da parte dei suoi capi piccole e grandi vessazioni, modifiche di turno all'ultimo momento, lettere di contestazioni e continui richiami. Tanto che dopo dopo sette mesi optò per le dimissioni accettando poche mensilità pur di ritrovare la serenità perduta. Chi, invece, ancora oggi non intende mollare è un dipendente di un'azienda di pulizie, nato in un Paese del Maghreb ma residente a Modena da 34 anni, licenziato nel 2005 perché accusato di non 'curare' sufficientemente spugne, secchi e stracci. “A dicembre del 2006 il giudice disse che potevo riprendermi il mio posto di lavoro – racconta oggi in una delle poche pause del suo turno giornaliero - e a maggio del 2007 mi ripresentai in azienda. Certo, potevo scegliere di prendere dei soldi e rassegnare le dimissioni ma a 50 anni non avrei trovato facilmente un altro posto. Io un lavoro ce l'avevo e me lo sono tenuto stretto. Se mi sono pentito? I miei superiori ogni giorno mi affidano i lavori più difficili. Per loro resterò sempre la pecora nera dell'azienda ma niente può essere più duro da accettare di essere licenziati senza un reale motivo”.

Pubblicato su Lettera43.it